di Manuela Pelucchi
Fino all'anno scorso non sapevo nemmeno come fosse fatta esattamente una lince, tanto meno ne conoscevo le abitudini di vita e l'habitat. Mai avrei immaginato che avrei finito per innamorarmene. Quando ho avuto l'occasione di venire a lavorare qui, nel Parco delle Prealpi Giulie in Friuli, ne ero entusiasta, anche se la vita di tutti i giorni non sarebbe stata proprio semplice. Non ero abituata a camminare in montagna e mi ritrovai a girare in lungo e in largo, su e giù, anche per dodici ore al giorno, con la neve fino alle ginocchia e con temperature che facevano ghiacciare l'acqua dentro alle bottiglie. Ma alla fine questo lavoro mi è entrato nelle vene: dimostrare che la lince c'è, anche qui nelle nostre montagne, è diventata la mia prima preoccupazione. È motivo di vanto sapere che nei nostri boschi gira, silenzioso e invisibile, un animale tanto maestoso quanto poco conosciuto.
Col tempo, ho imparato ad accettare anche quella che all'inizio è stata la delusione maggiore: la certezza quasi assoluta che, anche se fossi riuscita a trovare la conferma indiscutibile della presenza di linci in queste zone, mai ne avrei vista una allo stato libero. La difficoltà di vedere questo animale in libertà, nel suo habitat naturale, si intuisce facilmente considerando, ad esempio, l'impressionante ampiezza del territorio di un singolo esemplare di lince che, come quasi tutti i felini, è solitaria per natura. Basti pensare che, secondo stime effettuate nell'intero arco alpino, si è calcolato che un maschio adulto abbia un'area di attività che può andare dai 135 ai 450 km2: a questo enorme spazio non può accedere nessun altro individuo dello stesso sesso.
Le femmine, i cui territori sono più piccoli e in parte sovrapposti a quelli del maschio, incontrano il partner solo durante il breve periodo degli amori, pochi giorni tra febbraio e marzo. Viene da sé che le possibilità di vedere un singolo animale in un territorio così vasto è già molto bassa, ma diminuisce fin quasi ad azzerarsi, se si considera l'efficienza sensoriale di un felino selvatico come la lince, in grado di udire un animale così poco silenzioso come l'uomo, e di percepirne l'odore, molto prima che questi possa anche solo pensare di mettere mano al binocolo. Il mio lavoro non sarebbe stato, quindi, quello di cercare linci in carne e ossa, ma di cercarne le tracce, dalle impronte nella neve o nel fango, ai segni dei canini sul collo delle sue prede preferite: i caprioli.
Così, mentre anche oggi cammino arrancando per la salita, i miei occhi non cercano tra gli alberi, ma scrutano ogni centimetro di neve ai miei piedi. Le impronte di capriolo sono molto frequenti, spesso le posso seguire con lo sguardo fino al ciglio del sentiero, dove si fermano diventando più definite e profonde, a mostrarmi che un piccolo ungulato, fino a poco fa, era intento a mangiare bacche da una pianta. Per la mia ricerca è fondamentale la presenza di animali che possano essere cacciati dalla lince; senza un discreto numero di prede, non esisterebbe nemmeno uno solo dei felini che cerco. Oggi, diversamente dagli altri giorni, la mia passeggiata ha una meta ben precisa. Le Guardie Forestali hanno segnalato da queste parti una breve pista proprio sul sentiero: le impronte, purtroppo non molto recenti, sembrano essere quelle di un felino certamente più grande di un gatto selvatico. Mi imbatto nella pista poco più di un'ora dopo: le impronte sono una decina ma poco definite.
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È necessario valutare la distanza tra un'impronta e l'altra per avere una misura del passo: dovrebbe essere compreso tra gli 80 e i 110 centimetri. Inoltre, le zampe anteriori dovrebbero essere decisamente più grandi di quelle posteriori e le unghie non si dovrebbero vedere, al contrario di quanto avviene per cani e lupi, perché tenute entro apposite tasche delle zampe (sono appunto unghie retrattili, come quelle dei gatti). Tutto corrisponde: la mia gioia è alle stelle. In realtà, la mia eccitazione è giustificata da un ritrovamento avvenuto un paio di mesi fa poco lontano da un sentiero discretamente innevato e raramente battuto dall'uomo. Era la fine di novembre e da diversi giorni non nevicava. Stavo cercando un posto idoneo per concedermi una sosta e per questo avevo deciso di allontanarmi di qualche metro verso monte dal sentiero e sedermi su una sporgenza che sembrava essere comoda al punto giusto.
Ero già seduta in una poltrona di neve, quando vidi un ciuffo di pelo a qualche metro da me, tra gli alberi, subito prima di una radura. Mi alzai e mi avvicinai: pelo di capriolo ancora attaccato a un sottile lembo di pelle. Poco più in là, a tutti gli effetti, la scena del delitto: impronte confuse distribuite senza una logica apparente, macchie di sangue ormai ingiallite sul manto nevoso, peli a ciuffi sparsi per una decina di metri. E un piccolo frammento di osso, che subito raccolsi e infilai nello zaino. I casi potevano essere due: un cacciatore con i suoi cani aveva trovato la sua preda o qualche animale era andato a caccia con successo. Naturalmente, del capriolo non c'era traccia; in entrambi i casi sarebbe stato trascinato altrove, al sicuro o al ristorante, ma non riuscivo a distinguere tracce di scarpe, e le impronte erano talmente confuse da non permetterne un'identificazione certa.
Cercai nella zona per quasi un'ora senza successo, prima che l'odore inconfondibile di un cadavere mi colpisse le narici. Solo allora vidi altre tracce di sangue poco avanti. Finalmente, solo parzialmente nascosto dalla neve e dai rami, vidi il capriolo. Praticamente intatto, tranne che per un foro delle dimensioni di un pugno praticato in uno degli arti posteriori. Questa fu la prima vera scoperta significativa dopo diversi mesi. La carcassa del capriolo venne successivamente prelevata ed esaminata: gli indizi che conducessero a una predazione di lince c'erano tutti, compresi i segni piccoli e perfettamente circolari dei canini alla base del collo della preda.
La lince ha un tipico modo di cacciare e di consumare la preda: raramente la insegue per lunghi tratti, molto più spesso attende in agguato il momento giusto per balzarle addosso e soffocarla con un morso letale alla gola. Quindi, pratica una breccia nella zona delle principali masse muscolari per cibarsi: solitamente si tratta dei quarti posteriori dell'animale. Finito il pasto, tenta di nascondere la preda per farvi ritorno in seguito. Oggi, dopo questo nuovo ritrovamento, la mia ricerca assume un nuovo senso, pieno di speranza. Se la certezza non è assoluta, è comunque molto vicina. Ora so che forse, mentre sono qui, in piedi nella neve, da qualche parte qualcosa mi sta osservando con sguardo fiero. E un brivido mi corre lungo la schiena. |